Vangare o non vangare?
Terreno agricolo e forestale. Nel secondo tutte le sostanze assorbite dalle piante prima o poi tornano al terreno. Nel primo, no: glielo impediamo, impoverendolo. Gestire ambienti aperti e chiusi.
Si avvicina il tempo di coltivare l’orto e gli appassionati si stanno preparando moralmente alla fatica del vangare il terreno per porvi a dimora verdure di ogni specie. Ma siamo proprio sicuri che sia necessario?
Dissodare il terreno, con vanga e muscoli, o con aratro e trattore, è un atto talmente “ovvio” per chiunque coltivi che risulta difficile metterlo in dubbio, pensare che non sia necessario. Eppure, da diversi anni c’è chi pensa che si possa fare diversamente, risparmiando tempo e fatica senza rinunciare ai risultati colturali.
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La vangatura del terreno è sempre stata effettuata per mantenere il suolo sufficientemente morbido da far crescere bene le radici, senza fatica. Inoltre con la vangatura si può inglobare nel terreno il concime, soprattutto quello organico (letame, stallatico, compost…).
Si viene così a formare uno strato di terreno attivo omogeneo, di profondità corrispondente a quella della vangatura o aratura, tipico dei terreni agricoli. Nei terreni forestali, invece, lo strato attivo, quello dove si svolge l’attività biologica di radici, funghi, insetti, vermi, batteri, non è omogeneo, ma diviso a sua volta in strati, detti orizzonti, corrispondenti ai depositi annuali di materiale (foglie secche, rami caduti, carcasse di animali…).
Questo tipo di terreno risulta molto più ricco biologicamente di quello agricolo e non abbisogna delle stesse cure. Si è quindi diffusa l’idea di ricreare (per quanto possibile) una situazione simile anche in orti e campi. Tra i primi a sostenere un simile approccio ricordiamo il maestro Masanobu Fukuoka, del quale consigliamo il libro “La rivoluzione del filo di paglia”.
Riprodurre un terreno di tipo forestale in ambito agricolo non è del tutto possibile. Bisogna sempre ricordare che ci sono delle differenze fondamentali tra i due ambienti.
La prima è la diversa composizione biologica: le piante coltivate non sono le stesse che si troverebbero in un ambiente naturale e, soprattutto, in una coltivazione c’è molta meno varietà di specie. Inoltre molte coltivazioni (la gran parte delle orticole, i cereali, i legumi…) sono a ciclo breve e richiedono, quindi, un intervento del contadino per la raccolta e la sostituzione delle piante a fine ciclo.
La seconda differenza è che le coltivazioni richiedono l’apporto di sostanze nutritive, sia perché le varietà coltivate, essendo più produttive di quelle selvatiche, necessitano di maggiori quantità di nutrienti, sia perché, raccogliendo i prodotti, noi asportiamo delle sostanze, impedendo che tornino al terreno.
Una foresta è un ambiente “chiuso”, dove tutte le sostanze che le piante assorbono dal terreno tornano, prima o poi, al terreno stesso, in un ciclo continuo. Una coltivazione è un ambiente “aperto” dove le sostanze assorbite dalle piante per produrre ciò che noi mangiamo non tornano al terreno perché noi lo impediamo.
Queste differenze, però, non impediscono di immaginare di poter coltivare su “sodo” (ovvero su terreno non smosso). Anzi, i vantaggi possono essere diversi, poiché la maggior vitalità dei terreni non vangati aiuta anche nel controllo dei parassiti e delle erbacce, riducendo la necessità di lavoro e di antiparassitari.
Inoltre un maggior equilibrio nel terreno eviterà che si “stanchi” facendolo rimanere sempre fertile. Vedremo gli accorgimenti per coltivare su sodo nel prossimo articolo.
Immagine: steve-douglas (Unsplash)
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Nato a Lecco il 15 luglio 1976, diplomato in impiantistica e manutenzione di parchi e giardini presso la Scuola Agraria del Parco di Monza, si occupa di agricoltura e giardinaggio. Ha insegnato presso l’Università della Terza Età “Anni verdi” di Milano e ha tenuto corsi e conferenze sul tema del giardino e della coltivazione.
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