Stupri, femminicidio e pedofilia in Senegal: la presa di coscienza
Una recente legge del 2020 criminalizza violenze sessuali e atti di pedofilia ma la società avanza più lentamente rispetto al Diritto. Il caso Sonko, ora al centro di una vicenda politica.
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Vorrei parlare della pericolosissima nozione di “progresso” ed “evoluzione” quando applicata ad intere società e culture. E vorrei farlo con un esempio molto concreto. Nel Senegal contemporaneo le questioni sollevate dalle violenze sulle donne sono sempre più d’attualità.
L’approvazione recente, nel febbraio 2020, di una legge che criminalizza violenze sessuali e atti di pedofilia è stata salutata da tutte le parti della società civile. Peccato però che la realtà dei fatti, nella pratica, non rispecchi questa svolta epocale.
Nel 2021 uno dei principali oppositori politici dell’attuale presidente è stato arrestato con l’accusa di violenza sessuale ai danni di una giovane donna che lavora in un centro massaggi. Manovra politica oppure i fatti sono accaduti realmente? Questo lo stabilirà la giustizia o il tempo, si spera. O forse non si saprà mai. Quello che però ci interessa è che sono molto poche le voci che, nelle fazioni che si sono affrontate, hanno attirato l’attenzione sul fatto che la ragazza in questione, in quanto potenziale vittima di un crimine tremendo, meritava silenzio e discrezione.
Come al solito le insinuazioni su un presunto concorso di colpe della vittima, nella migliore delle ipotesi, si sono succedute. “Perché ha denunciato in ritardo?”, “Considerato il lavoro che faceva forse poteva aspettarselo…” e via dicendo.
Seppure Sonko fosse stato vittima di una manovra politica, l’atavica questione sollevata dal patriarcato rispetto alle presunte colpe di chi subisce violenza non è mai giustificabile. Eppure è sempre lì sulla scena del delitto. In alcuni contesti, soprattutto in quelli marcati da anni di miseria sociale ed economica, in Africa subsahariana sussiste un’impreparazione cronica delle istituzioni che dovrebbero assistere le vittime di violenza e un ostracismo palpabile nei confronti soprattutto delle giovani donne (ma ci sono anche degli uomini), a volte quasi bambine, che subiscono violenze sessuali.
Molte persone credono che se una donna è costretta ad avere rapporti sessuali dal marito legittimo non si possa parlare di violenza.
Cosa c’entra la nostra premessa sul concetto di “progresso”, vi chiederete voi?
L’idea che le società abbiano tutte quante un’evoluzione lineare, per tappe progressive, in ogni parte del mondo e della storia è stata fondamentalmente formalizzata nel campo delle scienze umane nell’Inghilterra dell’età vittoriana. Più di due secoli fa. Da questa idea deriva direttamente l’ipotesi che tutte le società siano in un certo qual modo paragonabili sulla base di una nozione di progresso monolitica ed elaborata sul modello della società europea del tempo. A partire da questo presupposto alcuni popoli e nazioni sono stati definiti per secoli come “selvaggi”, “inferiori”, “arretrati”.
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Da qui derivano anche alcune delle teorie che hanno fornito una base teorica alle imprese coloniali dell’Occidente. Superate e criticate, queste idee non trovano più spazio oggi nel mondo accademico e nei discorsi politically correct. Per fortuna, diremo noi. Eppure non è così nel discorso comune.
Una grande impresa della colonizzazione è stata anche riuscire a confondere le cause e gli effetti. Dopo secoli esiste una sorta di amnesia collettiva sul perché alcune società continuano a non avere mezzi e risorse da tutti i punti di vista. E quali sono le conseguenze di questa situazione. Del resto per chi è nato e cresciuto nelle periferie del Sud Italia, come me, niente di tutto ciò dovrebbe essere sorprendente.
Continuate a non vedere una relazione con le premesse, giustamente. Veniamo al dunque e tiriamo i nodi al pettine. Amo il Senegal almeno quanto l’Italia. Alcuni aspetti della società senegalese sono tremendi almeno quanto alcuni di quella italiana. Quando mi capita di parlare di argomenti come la questione del femminile e delle violenze di genere, in un’Italia tra l’altro non particolarmente esemplare a riguardo, alcune persone, spesso in perfetta buona fede, osservano che “Il Senegal di oggi è come il nostro paese cinquanta anni fa!”. Questa frase, apparentemente innocente, è basata su un’introiezione inconscia proprio della nozione di progresso ed evoluzione che permetterebbero, in teoria, di paragonare le società tra loro.
In realtà questa osservazione implica una buona dose, in fondo, di razzismo e di etnocentrismo anche se non immediatamente evidenti (spesso neppure per chi la pronuncia). Senza parlare del fatto che sposta il focus della questione su un altro piano che non c’entra nulla con il problema.
Un’amica molto vicina alla causa delle violenze sulle donne mi ha aperto gli occhi con una frase semplice ma assolutamente vera: “E pure se fosse così? Cosa cambierebbe? Non si deve lottare lo stesso per cambiare le cose?”.
In effetti l’idea che un paragone simile possa chiudere la questione rischia di giustificare in nome di un’astratta e insensata nozione di progresso uno stato di cose che restano gravi e da combattere. Inoltre oscura il fatto che esistono tantissime donne e uomini, attivisti e attiviste, che si muovono per cambiare la loro società e che non accettano questa situazione come un dato di fatto (1).
In fin dei conti pensare che vi sarà un’evoluzione progressiva che porterà naturalmente anche il Senegal a riconoscere più diritti alle donne è insensato almeno quanto dire ad un adolescente di oggi, che vive in un mondo post-pandemico e nell’era dei social, che noi eravamo come lui, che possiamo capire.
Ogni cultura e ogni paese ha la sua storia, il suo vissuto e le sue zone di ombra e di luce. Tutto quello che si può fare è mantenere una coscienza critica che, al di là dei facili paragoni, valorizzi le lotte e i diritti di tutti gli individui e i popoli che vogliono trovare la loro strada. Che non è già battuta, ma tutta da inventare.
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Note: 1) Per il lettore interessato citiamo Fatou Warkha Sambe, una giovane donna che dal 2019 dà voce alle vittime di violenza e discriminazione di genere (www.warkhatv.com), e il collettivo DafaDoy (“Basta così!” in wolof). Il Collectif des feministes au Sénégal ha organizzato lo scorso tre luglio il primo sit-in contro le violenze di genere à Dakar.
Immagini: www.facebook.com/Collectif-des-f%C3%A9ministes-au-S%C3%A9n%C3%A9gal-102417955448688
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Nata il 17 luglio 1986 a Vico Equense, da febbraio 2017 è dottoranda in Scienze storiche, archeologiche e storico-artistiche presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Il suo lavoro di ricerca verte sull’islam nell’Africa Subsahariana e in particolare sulla confraternita sufi della Muridyya in Senegal. Attualmente lavora ad una tesi di dottorato sul Gran Magal, pellegrinaggio annuale dei fedeli muridi presso la città santa di Touba. Negli anni universitari l’interessa per la filosofia del linguaggio e la comunicazione interculturale orientano il suo percorso verso l’antropologia: la dottoressa Napoli si laurea in Scienze Filosofiche nel 2012 presso l’ateneo partenopeo con una tesi dal titolo Magia primitiva e follia contemporanea. Dalla metapsichica alla psicopatologia nell’opera di Ernesto de Martino. La sua passione per gli studi antropologici si consolida e vira sull’africanistica tra il 2013 e il 2016. Durante questo periodo la dottoressa vive e lavora in Senegal come mediatore culturale presso l’ONG italiana CPS – Comunità Promozione e Sviluppo (di cui è attualmente membro del Consiglio Direttivo) – e si avvicina in particolare allo studio della storia delle religioni e dell’islam confrerico.
Email: virthinapo@gmail.com