Poesia performativa: un ritorno alle origini


L’origine greca di un mondo che oggi rivive come “Slam Poetry”. Nulla di nuovo, molto di antico, con narrastorie microfonati.  Parla la Prof. Cristina Pepe – le interviste di Maria Pia Dell’Omo

Il verso esiste oltre il foglio bianco: si fa voce, musica, gesto. L’universo della poesia performativa testimonia una riappropriazione degli spazi attraverso la parola. In questa rubrica ci confronteremo con personalità artistico-culturali esperte delle forme che stanno tornando in auge nel panorama italiano. Io sarò la vostra guida, da performer, studiosa del teatro di parola e divulgatrice culturale, in particolar modo del segmento della poesia perfomativa chiamato Slam Poetry, che rappresento in Campania con il collettivo Caspar Campania Slam Poetry.

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La poesia nasce dal fare. Lo suggerisce il suo etimo: poieo “ποιέω”, agire, fare, creare, far sì che qualcosa accada. Poesia è azione, verbo, suono, corpo, mimesi. Non solo. È gesto oltre il palcoscenico, può essere “accadimento” o “intenzione” –  non solo quindi esistere ars gratia artis, ma custodire uno scopo.

Negli ultimi anni si parla, anche su testate nazionali, di una poesia detta “performativa”, ma ciò non deve trarre in inganno: non si tratta di una forma “nuova” di fare poesia.Piuttosto, di un inconsapevole ritorno alle origini. Al verseggiare di ellenica reminiscenza.

Entriamo in questo mondo grazie alle parole della docente e ricercatrice Cristina Pepe, che ci ha concesso l’intervista con cui siamo lieti di inaugurare questa rubrica.

D. Cosa si intende quando si parla 
di poesia “orale” nell’antica Grecia?

Per poesia orale intendiamo il peculiare tipo di comunicazione che caratterizzò la poesia greca, che non fu destinata alla lettura, ma alla performance dinanzi a un pubblico. Più precisamente, perché una poesia possa definirsi  “orale” –  come ha puntualizzato Bruno Gentili nel suo fondamentale volume Poesia e pubblico nella Grecia antica da Omero al V secolo – devono ricorrere, simultaneamente o separatamente, tre condizioni: l’oralità della composizione, che presuppone un’improvvisazione estemporanea; l’oralità della comunicazione, cioè la realizzazione attraverso una performance; l’oralità della trasmissione, cioè una trasmissione affidata alla memoria (e non alla scrittura). Strettamente connessa alla dimensione dell’oralità è quella dell’auralità, che fa riferimento alla modalità di fruizione: la poesia greca era fatta per l’ascolto, come del resto aveva riconosciuto già Platone nella Repubblica (10, 603b), contrapponendola alla pittura, fatta per la vista.

In Grecia, prima dell’introduzione della scrittura alfabetica – che si suole datare approssimativamente tra la metà del IX e la metà dell’VIII sec. a.C. –, la produzione letteraria attraversò una fase orale-aurale, nella quale si registrò la compresenza di tutte e tre le condizioni dell’oralità.

Nell’Odissea omerica incontriamo due aedi, Femio, nella reggia di Odisseo a Itaca, e Demodoco, alla corte di Alcinoo nell’isola dei Feaci, che raccontano in versi le storie mitiche con l’accompagnamento di una cetra: in risposta alle richieste del pubblico, improvvisano le loro composizioni attingendo ad un repertorio che conoscono a memoria. Lo stesso processo di alfabetizzazione, nella gradualità del suo sviluppo, non alterò sostanzialmente il sistema comunicativo in Grecia almeno fino al V secolo. Così, carattere pragmatico e comunicazione orale, talvolta contemporanea alla composizione, propri dell’epica, contraddistinsero anche la poesia lirica arcaica e tardo-arcaica.

Nell’Atene classica, poi, le opere teatrali furono naturalmente concepite come un’esecuzione da vedere e ascoltare.

È forse interessante precisare che questo modo di guardare e interpretare i testi a noi noti della letteratura greca è il frutto del lavoro condotto dai filologi a partire dalla metà del Novecento –  il già ricordato Gentili è stato senz’altro tra i pionieri, ma tanti altri studiosi, italiani e non, meriterebbero di essere ricordati. Prima di allora, infatti, la filologia aveva proiettato nella grecità arcaica e classica la propria moderna “idea di letteratura”: non veniva cioè messo in dubbio (se non per Omero) che l’autore leggesse, scrivesse, pubblicasse libri con modalità simili alle nostre.

D. Come e in quali luoghi veniva 
eseguita pubblicamente la lettura 
e/o recitazione dei versi?

La performance veniva affidata all’esecuzione di un singolo o di un coro e ad essa contribuivano aspetti che oggi sfortunatamente non siamo più in grado di percepire, quali l’accompagnamento della musica, la modulazione della voce nel canto, la gestualità, la coreografia (segnatamente per la lirica corale e per il teatro), il contesto dell’esecuzione con i possibili tipi di interazione e di reciproca influenza fra chi componeva il testo, chi lo eseguiva – talvolta diverso dall’autore – e il pubblico.

I Greci denominarono la poesia nel suo insieme con il termine mousiké, «l’arte delle Muse», considerandola come un’unione inscindibile di parola, musica e danza. Diverse erano le occasioni e i tipi di uditorio davanti al quale veniva eseguita la performance. Da un lato, le grandi feste religiose o le cerimonie legate allo svolgimento di gare atletiche o artistiche, alle quali partecipava un pubblico ampio e indiscriminato, proveniente da tutto il mondo greco, erano le occasioni canoniche per l’esecuzione di componimenti affidati ad un coro di danzatori-cantori (per questi contesti compose i suoi versi un poeta come Pindaro). Dall’altro, gli incontri simposiali e le riunioni di gruppi ristretti di aristocratici –  le eterìe maschili o i tìasi femminili – erano rallegrati, di solito, da canti monodici, realizzati cioè da cantori-solisti con l’accompagnamento di uno strumento musicale (a questi gruppi, era destinata, per esempio, la poesia di Alceo e Saffo).

D. La poesia (e il teatro) potevano 
dirsi fini a se stessi oppure avevano 
un’altra valenza?

Per i Greci la poesia svolse una funzione di guida morale e di formazione delle coscienze. Essa fu avvertita come la più efficace tra le arti educative perché, grazie al piacere psicosomatico prodotto dalla combinazione tra gli aspetti visivi e uditivi, era in grado di coinvolgere il pubblico non solo a livello intellettuale, ma anche emotivo. Il processo di immedesimazione psicologica tra esecuzione e ricezione rendeva la poesia uno strumento fondamentale per l’integrazione dell’individuo nel contesto sociale: nella grecità arcaica, la performance del poeta sia epico che lirico, caratterizzata dal più alto grado di mimesi e modellata prestando grande attenzione all’«orizzonte d’attesa» dell’uditorio, mirava a rivelare a quest’ultimo il suo mondo di valori e la sua stessa identità (un’identità riflessa nelle storie del passato mitico e nella attualità del presente), sia all’interno di singoli gruppi sia di un’intera comunità cittadina, e a orientare i suoi comportamenti sociali e politici.

In epoca classica, la poesia continuò a esercitare l’antico ruolo di guida della comunità soprattutto attraverso il teatro. Ben note sono le profonde implicazioni “politiche” e paideutiche che ebbe il teatro ateniese. Lo spettacolo, nella cornice religiosa delle principali feste in onore di Dioniso e con l’affluenza delle masse cittadine (e talvolta anche extracittadine), costituì un importante momento di riflessione collettiva, di confronto e di giudizio su questioni rilevanti per l’intero corpo civico.


Ringraziando la Dottoressa Pepe, vorremmo salutare i nostri lettori con una delle più famose liriche della poetessa Saffo (630 a.C. circa – 570 a.C. circa), nella traduzione di Quasimodo:

A me pare uguale agli dei
chi a te vicino così dolce
suono ascolta mentre tu parli
e ridi amorosamente. Subito a me
il cuore si agita nel petto
solo che appena ti veda, e la voce
si perde sulla lingua inerte.
Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle,
e ho buio negli occhi e il rombo
del sangue alle orecchie.
E tutta in sudore e tremante
come erba patita scoloro:
e morte non pare lontana
a me rapita di mente.

Testo originale, nell’edizione di F. Ferrari (BUR 2016):

Φαίνεταί μοι κῆνος ἴσος θέοισιν
ἔμμεν’ ὤνηρ, ὄττις ἐνάντιός τοι
ἰσδάνει καὶ πλάσιον ἆδυ φωνεί-
σας ὐπακούει

καὶ γελαίσας ἰμέροεν, τό μ’ ἦ μὰν
καρδίαν ἐν στήθεσιν ἐπτόαισεν,
ὠς γὰρ <ἔς> σ’ ἴδω βρόχε’ ὤς με φώνη-
σ’ οὐδ’ ἒν ἔτ’ εἴκει,

ἀλλὰ † καμ †μὲν γλῶσσα † ἔαγε †, λέπτον
δ’ αὔτικα χρῷ πῦρ ὐπαδεδρόμακεν,
ὀππάτεσσι δ’ οὐδ’ ἒν ὄρημμ’, ἐπιρρόμ-
βεισι δ’ ἄκουαι,

†έκαδὲ † μ’ ἴδρως κακχέεται, τρόμος δὲ
παῖσαν ἄγρει, χλωροτ⌊έρα δὲ π⌋οίας
ἔμμι, τεθ⌊νάκην δ’ ὀ⌋λίγω ‘πιδε⌊ύης
φα⌋ίνομ’ ἔμ’ αὔτ[ᾳι·

ἀλλὰ πὰν τόλματον, ἐπεὶ † καὶ πένητα †


Cristina Pepe è ricercatrice e docente di Filologia Classica presso il Dipartimento di Lettere e Beni Culturali dell’Università della Campania “L. Vanvitelli”. Ha fatto esperienze di studio e di ricerca in Francia (Università di Strasburgo), Inghilterra (University of Cambridge e University College of London) e Germania (Staatsbibliothek di Berlino). Si occupa soprattutto di storia della retorica antica e della sua fortuna nel pensiero e nelle pratiche discorsive contemporanee, di iscrizioni greche e latine in versi e di storia degli studi classici. Ha pubblicato due monografie (“The Genres of Rhetorical Speeches in Greek and Roman Antiquity”, Brill, Boston-Leiden 2013 “Morire da donna: ritratti esemplari di bonae feminae nella laudatio funebris romana, ETS, Pisa 2015) e numerosi articoli e saggi su riviste scientifiche.

Riferimenti:
Pagina della docente sul sito del Dipartimento di Lettere;
Pagina di Academia.edu dove è possibile scaricare gratuitamente alcuni dei suoi lavori.

Immagine: Photo by Trust “Tru” Katsande on Unsplash

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Vai all’articolo: Backstage SLAM POETRY (foto libere e scaricabili)