Il saññāvedayitanirodha è uno stato cognitivo?


Nelle antiche scritture buddhiste che menzionano lo stato di “cessazione di percezioni e sensazioni” è ravvisabile una tensione tra il ritenerlo uno stato non-cognitivo e ritenere di contro, sia pure indirettamente, che in questa particolare condizione le facoltà cognitive non soltanto permangano, ma siano sì raffinate da portare allo sviluppo della conoscenza emancipatrice.

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Nelle scritture canoniche che ne parlano, il saññāvedayitanirodha viene talvolta menzionato in associazione con una formula asserente l’esaustione degli influssi nocivi (āsava) in virtù del vedere con conoscenza penetrante (paññāya cassa disvā āsavā parikkhīṇā honti) da parte del bhikkhu. Sembrerebbe, così, che il conseguimento del saññāvedayitanirodha abbia un ruolo soteriologico decisivo, direttamente connesso con la liberazione. Indirettamente, si può arguire che in questo ottenimento contemplativo le facoltà cognitive non soltanto permangano, ma vengano anche acuite fino al punto di rendere possibile la maturazione della conoscenza emancipatrice (paññā).

D’altra parte, in testi successivi, il Vimuttimagga e il Visuddhimagga, la concezione proposta del saññāvedayitanirodha è quella, fondamentalmente, di uno stato non-cognitivo, in cui, cioè, manca persino la possibilità stessa di conoscere qualcosa. Definito nel Visuddhimagga (XXIII, 18), concordemente nella sostanza con la precedente definizione del Vimuttimagga, come il non verificarsi della coscienza (citta) e dei suoi fattori (cetasika), il nirodha costituisce pertanto uno stato “inconscio”, o “privo di mente” (acittaka), come del resto viene esplicitamente affermato in Visuddhimagga XI, 124. Mancando sia la coscienza che i suoi fattori concomitanti, è impossibile, in tale stato, conoscere qualcosa.

Come conciliare, allora, le due antitetiche posizioni dei sutta da una parte e del Vimuttimagga e Visuddhimagga dall’altra? Il saññāvedayitanirodha, in altri termini, è uno stato cognitivo o no? Sebbene le fonti non consentano una risoluzione certa della questione, un tentativo atto perlomeno ad attenuare la contraddizione enunciata potrebbe essere il seguente: malgrado la formula dell’esaurirsi degli āsava a motivo della visione informata dalla saggezza compaia nei sutta subito dopo il punto in cui si dice che il bhikkhu raggiunge (upasampajja) e dimora (viharati) nel saññāvedayitanirodha, è possibile che la paññā maturi non mentre si è in esso, ma quando se ne emerge, come ipotizzato da Norman (1990: 30) e Bhikkhu Payutto (2021: 902). Così, diviene possibile mantenere la posizione di Upatissa e di Buddhaghosa, per cui la “cessazione” è uno stato privo di attività mentali, dunque non-cognitivo, e al contempo quella dei sutta, per cui in qualche modo il nirodha ha a che fare con la conoscenza salvifica e, quindi, con la liberazione.

L’ipotesi in questione ha il pregio di mitigare l’incongruenza anzidetta e, pur richiedendo maggior approfondimento rispetto a quanto abbiano fatto i suoi sostenitori, consente di intendere in modo coerente con il resto della dottrina buddhista il rapporto tra il saññāvedayitanirodha e la paññā.

Riferimenti bibliografici: Norman, K. R. (1990), Aspects of Early Buddhism, in D. S. Ruegg & L. Schmithausen (edited by), Earliest Buddhism and Madhyamaka, Brill; Payutto, B. (2021), Buddhadhamma. The Laws of Nature and Their Benefits to Life, Buddhadhamma Foundation.

Foto di amit kumar su Unsplash

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