Il Governo Conte II: dentro o fuori la Costituzione?
Oltre la propaganda e le opinioni. Adottiamo un fatto abbastanza recente per comprendere le reali possibilità di scioglimento delle Camere e della formazione di nuove maggioranze. Analisi giuridica valida anche per i casi futuri.
Il controverso percorso che ha portato alla nascita del Governo Conte bis nasce da una crisi diversa rispetto alle molteplici e precedenti vicende degli esecutivi italiani.
Sebbene all’indomani delle elezioni europee l’allora Ministro degli Interni e segretario della Lega avesse rassicurato sulla tenuta del Governo italiano, la mancata richiesta di un rimpasto e l’improvvisa accelerazione per l’attuazione di quella parte del contratto più verde che gialla, lasciavano percepire o un brusco cambiamento dei rapporti di forza all’interno della stessa maggioranza oppure i germi di una crisi di governo che, almeno fino a luglio, non appariva percepibile.
Infatti, nonostante su alcuni temi, come il regionalismo differenziato e la flat tax, i ferri iniziavano ad incrociarsi pericolosamente, la Lega riusciva ad ottenere l’approvazione anche del decreto sicurezza bis attraverso l’apposizione del voto di fiducia che difficilmente sarebbe stata concessa con una crisi in corso.
Tuttavia, il consenso popolare leghista in continua ascesa e le difficoltà da qualcuno scrutate all’orizzonte di approvare una manovra di bilancio molto lontana dalle promesse elettorali, hanno probabilmente spinto la Lega a “staccare la spina”, immaginando uno scioglimento delle Camere da parte di Mattarella che nella realtà non è stato concesso.
La volontà del Presidente della Repubblica di conferire nuovamente il mandato al Presidente uscente Conte ha destato particolare stupore tra i non addetti i lavori, alimentando un sentimento populista che si pone agli antipodi rispetto alle norme, alle prassi e alle convenzioni costituzionali che hanno retto a partire dall’entrata in vigore della Costituzione, nonostante i continui stravolgimenti del sistema partitico italiano ed il passaggio tra la prima e la seconda Repubblica.
Immaginare un Governo fuori dalla legalità costituzionale o addirittura parlare di colpo di stato non è stato altro che una reazione scomposta e dettata dalla divaricazione tra ciò che si era immaginato e ciò che si è verificato nella realtà.
Sebbene dal punto di vista politico, l’asse PD-M5S è apparsa una coalizione forzata alla luce dei rapporti non sempre cordiali tra le due forze, è proprio questo accordo che ha “imposto”, per così dire, il prosieguo della legislatura ancorché con una maggioranza parzialmente diversa.
Nell’ambito di una crisi di governo, il Presidente della Repubblica ha il dovere di verificare quali sono (e se ci sono) i presupposti per la formazione di una maggioranza anche totalmente diversa rispetta a quella che ha conferito la prima fiducia al primo Governo.
Questo perché il corpo elettorale, nell’ambito di una democrazia consociativa e di un parlamentarismo compromissorio, che sono i risultati della forma di governo parlamentare e di sistemi elettorali in cui non governa chi semplicemente raccoglie il consenso maggiore (ma non la maggioranza assoluta), non soltanto le forze politiche non sono tenute a rispettare accordi di coalizione formatisi prima delle elezioni e al di fuori del Parlamento, ma anche perché la variabile della formazione dei gruppi parlamentari può, come è stato, incidere sulla costituzione delle maggioranze e delle opposizioni, per lo meno fino a quando non sarà previsto un meccanismo che blocchi i voti in entrata con i corrispondenti voti in uscita.
Ma ciò può non bastare, almeno fino a quando nella Costituzione continuerà a sopravvivere l’art. 67, cioè il divieto di mandato imperativo.
Peraltro, se il Parlamento, checché se ne dica, è il cuore del sistema istituzionale italiano ed è in questa sede che i naturali accordi per la formazione del Governo devono esplicarsi. E non potrebbe essere il contrario, visto che è il Parlamento l’organo costituzionale sovrano che concede (e revoca la fiducia) e il corpo elettorale, in una qualsiasi forma di governo parlamentare non vota il Governo.
Lo scioglimento delle Camere, quindi, rappresenta solo ed esclusivamente l’extrema ratio e l’unica strada percorribile nel caso in cui i gruppi parlamentari sono riescano a coalizzarsi attorno ad uno o più nomi incaricati dal Presidente della Repubblica alla formazione di un Governo.
Durante una legislatura quinquennale, pertanto, è pure possibile l’avvicendamento di diverse maggioranze e di diversi Presidenti del Consiglio, circostanza normale e conosciuta nel nostro Paese più di ogni altri se si pensa che in poco più di 70 anni di vigenza della Costituzione abbiamo avuto poco meno di 70 Governi.
Concedere il voto popolare senza tener presente quanto fin qui chiarito solo perché 1/3 degli elettori (ma non la maggioranza) si è espresso a favore della Lega durante le consultazioni europee, avrebbe aperto un pericoloso varco difficile da arginare in futuro, in cui si sarebbero potute insinuare prassi al di fuori, queste sì, della legalità costituzionale.
Se la Costituzione ha previsto in 5 anni la durata di una legislatura, appare inverosimile giustificare crisi extraparlamentari anomale sulla scorta di risultati elettorali europei, regionali o comunali che nulla hanno a che vedere con le consultazioni politiche.
Questo il quadro costituzionale di riferimento per capire se si è dentro o fuori la legalità costituzionale.
Peraltro, è proprio questo il giardino in cui sono nati gli ultimi due Governi giuridicamente robusti tanto da annientare gli slogan politici: «mai con la Lega, mai con il partito di Bibbiano».
Certo, come detto, è possibile discutere sull’opportunità politica di stringere accordi con un partito piuttosto che con l’altro. Ma questo profilo attiene al merito politico e non alla Costituzione.
Docente di Istituzioni di diritto pubblico nel Dipartimento di Giurisprudenza dell”Università degli studi della Campania “L. Vanvitelli”, nonché Avvocato del Foro di Santa Maria Capua Vetere. Ha ricoperto diversi incarichi di collaborazione e di insegnamento nelle Università di Bologna, Firenze, Urbino e Roma “La Sapienza”. Nel 2015 è stato collaboratore del Ministro per le riforme istituzionali e per i rapporti con il Parlamento.
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