Il cimitero unico al mondo di Joal-Fadiouth
L’isola formata interamente da gusci di conchiglie che scricchiolano sotto i piedi. Unico luogo al mondo dove cattolici e musulmani sono seppelliti assieme. Croci di marmo e tombe orientate verso La Mecca. E il timore reverenziale della presenza notturna degli spiriti, i Djin.
Joal-Fadiouth è un isolotto lungo poche centinaia di metri, lambito dalle maree dell’Oceano Atlantico a sud di Dakar. Questo piccolo villaggio di pescatori è meglio conosciuto, da qualche anno, come “isola delle conchiglie”, un nome che evoca paradisi tropicali e spiagge perdute ma che non deve trarre in inganno.
Le caratteristiche uniche dell’isola non hanno a che vedere con il turismo balneare. Un lungo ponte in legno collega Fadiouth alla più celebre Joal, città che diede i natali a Leopold Sedar Senghor, primo presidente del Senegal indipendente. Il suo nome deriva dalla lingua sèrère, etnia molto presente sulla costa, e vuol dire “lingua di terra”.
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La terra però a Fadiouth è ben poca: l’isola è interamente formata da depositi di “coquillages”, gusci di molluschi che si sono accumulati nei secoli grazie al movimento delle maree. Le conchiglie, oltre che scricchiolare sotto i piedi che percorrono le stradine salmastre, sono utilizzate anche nella fabbricazione dei mattoni sbrecciati delle case.
Ciò che rende tuttavia Joal-Fadiouth una meta ambita per viandanti e viaggiatori (udite, udite!) è il suo cimitero. Scatto immancabile nelle foto-ricordo, un enorme baobab troneggia sulla quiete dell’unico luogo al mondo dove cattolici e musulmani sono seppelliti insieme.
Il Senegal è un paese al 90% di fede islamica, ma i rapporti di proporzione si invertono nell’isola. La grande chiesa del Sacré-Coeur, con le sue enormi conchiglie incastonate nel muro a guisa di acquasantiere, è affiancata da una piccola moschea frequentata dalla minoranza degli abitanti. Le guide locali accompagnano gruppi di visitatori al cimitero, dove le tombe orientate verso La Mecca si affiancano alle croci in marmo.
In particolare per noi che veniamo dal mondo occidentale, poco abituati alla complessità dei rapporti inter-religiosi, l’eccezionalità del luogo è massimamente suggestiva. Il Senegal, stabile democrazia dell’Africa subsahariana, vanta da anni una convivenza pacifica tra le minoranze cattoliche e la popolazione di fede musulmana. Una convivenza che si esplicita nella condivisione tra famiglie del cibo e dei festeggiamenti delle principali celebrazioni religiose.
Per l’Eid-El-Kebir, la festa del Sacrificio, parte della carne dei montoni immolati viene regalata agli amici cristiani che a loro volta distribuiranno a Pasqua lo ngalax, un semolino dolce a base di miglio e pain de singe (il frutto del baobab).
Il cimitero di Joal-Fadiouth, dunque, assurge a simbolo di una convivenza possibile e reale.
In realtà, si potrebbe cercare di andare oltre il racconto sulle due anime della città, anche un po’stereotipato ormai a causa della “turistizzazione” crescente dell’isola, considerando un terzo elemento. «Non ci entro nel cimitero dopo il tramonto, ho paura dei djin», mi dice Paul durante una delle mie visite.
Pur essendo cattolico praticante, infatti, come la maggior parte dei suoi connazionali, conserva il rispetto e il timore per questa sorta di spiritelli, che nell’immaginario comune abitano proprio i grandi alberi come il baobab del cimitero.
Anche questo grande albero dunque trova la sua ragion d’essere all’interno di un luogo così simbolico. Una delle motivazioni che fanno del Senegal un meraviglioso esempio di convivenza pacifica è anche, e soprattutto, il legame sempre vivo dei suoi abitanti con una cultura ben più antica dei culti confessionali: la religione degli antenati e il rispetto (se non la credenza) per tutto quello che c’è stato prima di noi.
Le radici nella storia passata sono spesso un’ottima base sulla quale costruire il futuro.
Immagine: “Cimitero di Joal Fadiouth” di Mariateresa Scannicchio (2020), utilizzata per il file di wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/File:Cimitero_Joal-Fadiouth.jpg
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Nata il 17 luglio 1986 a Vico Equense, da febbraio 2017 è dottoranda in Scienze storiche, archeologiche e storico-artistiche presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Il suo lavoro di ricerca verte sull’islam nell’Africa Subsahariana e in particolare sulla confraternita sufi della Muridyya in Senegal. Attualmente lavora ad una tesi di dottorato sul Gran Magal, pellegrinaggio annuale dei fedeli muridi presso la città santa di Touba. Negli anni universitari l’interessa per la filosofia del linguaggio e la comunicazione interculturale orientano il suo percorso verso l’antropologia: la dottoressa Napoli si laurea in Scienze Filosofiche nel 2012 presso l’ateneo partenopeo con una tesi dal titolo Magia primitiva e follia contemporanea. Dalla metapsichica alla psicopatologia nell’opera di Ernesto de Martino. La sua passione per gli studi antropologici si consolida e vira sull’africanistica tra il 2013 e il 2016. Durante questo periodo la dottoressa vive e lavora in Senegal come mediatore culturale presso l’ONG italiana CPS – Comunità Promozione e Sviluppo (di cui è attualmente membro del Consiglio Direttivo) – e si avvicina in particolare allo studio della storia delle religioni e dell’islam confrerico.
Email: virthinapo@gmail.com