Il Buddhismo è una religione?
Secondo la visione ‘modernista’ del Buddhismo diffusa in Occidente, l’insegnamento del Buddha sarebbe più una filosofia o un modo di vita che una religione. Ma si tratta di un’idea recente, nata nell’ultimo secolo e mezzo, che mette in ombra molti aspetti del Buddhismo ritenuti incompatibili con la ragione e la scienza
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Quante volte abbiamo sentito dire che ‘il Buddhismo non è una religione’ ma che andrebbe piuttosto considerato uno ‘stile di vita’, una ‘filosofia’, una ‘scienza della mente’ o una ‘psicologia’? Personalmente ritengo che queste definizioni siano nel migliore dei casi fuorvianti, quando non completamente infondate.
A ben guardare, sono formulate spesso in contesti ‘modernisti’ occidentali, da persone che, pur nutrendo un genuino interesse per le dottrine e le pratiche buddhiste, si definiscono a volte spiritual but not religious (SBNR). Soprattutto nel mondo anglosassone, negli ultimi decenni è emersa una visione che contrappone la religione – intesa come fede cieca, clericalismo, dogmatismo, moralismo opprimente, ritualismo – a una spiritualità, intesa come il rapporto diretto, personale e non mediato, con un ‘assoluto’ variamente concepito come dio (o dea) o come ‘uno’ impersonale, oppure con il cosmo o la natura.
Secondo questa visione, la spiritualità coinciderebbe con il nucleo perenne e mistico di ogni religione, liberato da tutte le concrezioni dogmatiche, dalla zavorra delle superstizioni e da ogni dualismo. Non è questa la sede per intraprendere una disamina anche solo sommaria delle genesi complessa di questa idea, che per molti aspetti rappresenta una cifra caratteristica della religiosità contemporanea, soprattutto nelle società neoliberali.
A questo proposito, la figura del Buddha è stata spesso eletta, nella narrazione SBNR, a campione di questa visione. Già a partire dalla seconda metà del XIX secolo, la vita e l’insegnamento del Buddha vennero concepiti come il paradigma di una ricerca spirituale individuale, di carattere empirico e razionale, che si opponeva vittoriosamente al ritualismo ottuso e dogmatico del clero brahmanico (una visione, oggi superata in ambito accademico, emersa non a caso tra gli studiosi orientalisti influenzati dal pensiero protestante, che vollero vedere nel Buddha una sorta di Martin Lutero ante litteram).
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Chi oggi considera il Buddhismo una ‘spiritualità’ o una ‘filosofia’ ha in mente un concetto di religione che coincide spesso con quegli aspetti del Cristianesimo (o in generale di alcune religioni monoteiste) ritenuti più retrivi e oppressivi: un dio padre personale, un clero gerarchico che media tra il fedele e il divino, una serie di credenze reputate irrazionali, un atteggiamento oscurantista, una morale rigida e antiquata, eccetera.
Tutti questi elementi vengono ritenuti a torto o a ragione assenti nel Buddhismo, presentato come un cammino di realizzazione spirituale che fa a meno di un dio creatore e della sua grazia, della mediazione del clero, del rituale e dei dogmi, ponendo al centro la meditazione, intesa come una pratica individuale di indagine razionale volta ad acclarare la vera natura delle cose.
Questa visione modernista del Buddhismo è oggi quella più diffusa in Occidente, e influenza fortemente la percezione che si ha del Buddha, del suo insegnamento e della ricca tradizione che ne deriva. Il difetto principale di questo modo di concepire il Buddhismo è che si basa su una selezione arbitraria di elementi ritenuti compatibili con la modernità, la razionalità e la scienza, e sull’esclusione o la messa in secondo piano di altri elementi (primi tra tutti la rinascita, il karma, la cosmologia, l’esistenza di esseri non umani e divinità, gli elementi magici o sovrannaturali, l’onniscienza del Buddha, eccetera).
Questa operazione di cherry picking ha contribuito a dare un’immagine fortemente distorta (o quantomeno parziale) del Buddhismo come fenomeno pienamente religioso, a favore di una visione del Buddhismo come filosofia razionale, scienza della mente o modo di vita, spostando l’accento in modo esclusivo sulla pratica della meditazione, spesso decontestualizzata e svincolata dalla condotta morale e dalla visione filosofica, contrariamente a come essa viene presentata in ambiti tradizionali. A questa tendenza si accompagna la ricerca, in parte frutto dell’approccio accademico orientalistico ottocentesco, di un ipotetico ‘vero insegnamento del Buddha’, scevro da quelle ingombranti zavorre religiose e superstiziose che avrebbero finito per occultare il messaggio razionale delle origini.
È certamente vero che all’interno della tradizione Buddhista (e probabilmente anche all’interno di quello che era l’insegnamento del suo fondatore) si ritrovano una serie di elementi che possiamo definire ‘razionali’ o addirittura ‘scientifici’.
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Il Buddhismo è anche una filosofia, o meglio, esso ha generato nel corso dei secoli una serie di prodigiosi sistemi di pensiero, di grande raffinatezza e complessità. Le dottrine dell’Abhidharma, la filosofia della Via mediana (Madhyamaka), le dottrine della Sola mente (Cittamātra) o la ricca tradizione logico epistemologica affrontano temi filosofici di importanza primaria e universale, ed è davvero deplorevole che pochissimi tra i nostri filosofi ne abbiano consapevolezza, mentre la maggior parte preferisce trincerarsi dietro il vecchio pregiudizio eurocentrico che vede la filosofia come fenomeno esclusivamente greco, mediterraneo e occidentale.
Riassumendo, si tende spesso a dimenticare che il Buddhismo, pur differenziandosi dalle grandi religioni monoteiste per il suo rifiuto di un dio creatore, presenta tutta una serie di elementi che possiamo definire a pieno titolo ‘religiosi’: una complessa dottrina della salvezza; un clero e una ampia gamma di rituali e liturgie; una mole enorme di testi rivelati che spesso sono essi stessi oggetti di culto e di devozione; un pantheon di buddha e di esseri divini o semidivini; una cosmologia con inferni e paradisi; la credenza secondo cui l’universo è regolato da una legge morale impersonale (quello che definiamo ‘il karma’); una serie di pratiche che mirano a produrre un cambiamento nell’individuo e condurlo alla realizzazione di determinati fini soteriologici.
Sostenere che il Buddhismo non è una religione vuol dire avere un concetto molto ristretto e parziale di cosa sia una religione, e significa riaffermare più o meno inconsapevolmente un pregiudizio etnocentrico secondo cui una religione, per essere tale, deve essere simile a quella diffusa in Occidente, incentrata sulla fede in un dio personale.
Bibliografia consigliata: Donald Lopez Jr., Che cos’è il Buddhismo, Astrolabio Ubaldini, Roma 2001; David MacMahan, The Making of Buddhist Modernism, Oxford University Press, New York 2008.
Photo by Nick Fewings on Unsplash
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Nato a Roma nel 1976, ha conseguito il dottorato di ricerca in Civiltà società ed economia del Subcontinente indiano presso la Facoltà di studi orientali dell’università «La sapienza» di Roma e il diploma triennale in lingua e cultura tibetana presso l’IsIAO di Roma. I suoi interessi di ricerca comprendono le pratiche meditative del Buddhismo indiano, le tradizioni yogiche del Buddhismo tantrico indo tibetano, le tradizioni dello Haṭhayoga e la storia dello yoga moderno. Parallela alla formazione accademica, ha coltivato la pratica e lo studio dello yoga secondo la tradizione del Viniyoga di Krishnamacharya e Desikachar, divenendo insegnante formatore. Si dedica da molti anni all’insegnamento dello yoga attraverso corsi, workshop e seminari online, e alla diffusione della cultura indologica e tibetologica.
Email: marcopassavanti@yahoo.it
FB: https://www.facebook.com/marco.passavanti.3