I bulli. Chi li vede davvero?
“Sebbene io sappia di essere peggio di una bestia, non crede che abbia anch’io il diritto di vivere?”
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Questa citazione, tratta dal celebre film coreano Oldboy, prorompe con forza ed è la molla da cui scaturisce un’associazione di pensieri, fino a giungere a una bambina, che qui chiamerò Francesca e che, per molti, è una bulla.
Scontrosa e arrabbiata, Francesca percuote sovente i compagni di classe e, in un giorno qualunque, è l’artefice di un comportamento ritenuto grave. A scuola tutti i docenti presenti subito si allarmano, poi si arrabbattano per tenere sotto controllo la situazione, e intanto la notizia raggiunge i piani alti, la dirigenza.
Accade che, in un momento di agitazione, la bambina colpisce inavvertitamente la maestra dandole una testata allo zigomo e, per quest’ultima, si rende necessario l’intervento del Pronto Soccorso. Per inciso, la donna se la cava egregiamente, con un po’ di riposo.
Ma come sta Francesca? In pochi se lo sono chiesti. Osservandola si può già, in parte, rispondere a questo interrogativo. Corre, prova a tutti i costi a stare vicino alla maestra per soccorrerla, la accompagna fuori dalla classe, le porge la borsa. Quando gli adulti le dicono di tornare in classe lei si dimena, scappa, tenta di scavalcare il balcone.
Desidera essere presente.
Esprime un forte senso di colpa, non voleva fare del male a nessuno, e adesso ha paura, teme che la sua insegnante stia male e, perdipiù, a causa sua.
Questo aneddoto ha, come direbbe Jacques Lacan, il carattere umano della follia. Follia come condizione fondante dell’essere umano, come faglia aperta che ci riguarda tutti, e che si insinua all’interno delle istituzioni. Proprio per questo concerne il singolo individuo, certo; ma anche la collettività, che in questo caso è il personale scolastico in burn-out, l’istituzione scolastica che, per alcune ore, va in tilt.
Spesso sembra che la società non sia in grado di rispondere alla follia, di con-tenerla, di comprenderla, per cui tenta difensivamente di metterla a tacere, di inibirla.
Risuona, dunque, la domanda posta nella pellicola diretta da Park Chan-wook e, la vicenda qui narrata, lascia aperte alcune questioni:
Come si può garantire il diritto di vivere, e di esprimersi (aggiungo) a una “bestia”, a un bullo che altro non è che una bambina? Una bambina che, nel bene e nel male, desidera essere presente all’Altro, con tutto ciò che porta di sé nella comunità.
Ancora: è possibile che, attribuire l’etichetta di bullo/a serva a trovare il capro espiatorio di un malessere generalizzato? E in tal caso, in che modo la bambina può trovare il suo posto nel mondo?
L’immagine è un’opera di Giovanni Bragolin.
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1988, palermitana. Psicologa clinica e di comunità, psicoterapeuta interpersonale e di gruppo. Iscritta all’Ordine degli Psicologi della regione Sicilia. Svolge la libera professione nello studio privato a Palermo e on-line. Da diversi anni collabora con le istituzioni scolastiche del capoluogo siciliano.
E-mail: dott.ssabarbarabarletta@gmail.com – FB: www.facebook.com/dott.ssabarbarabarlettapsicologo