Risiko con atomica, flotte e geo-ingegneria
L’Italia, nonostante la Via della Seta, ormai fuori dai giochi che contano. USA, Cina e Russia riprogettano le nuove vie marittime commerciali. E perché, nonostante tutto, prosegue l’alleanza economico-militare tra Europa e Stati Uniti, mentre la seconda sembra prepararsi ad abbandonare la leadership mondiale senza lasciare un erede.
Ogni nazione ha una sua determinata strategia. Le emergenze, questa pandemia in particolare, costringono a distrarre attenzione e risorse verso la gestione di contingenze transitorie per evitare che esse determino stravolgimenti debilitanti o addirittura letali.
I veri leader sono quelli che riescono a tenere la barra dritta nella tempesta, i grandi leader quelli che riescono a fare della tempesta una provvida sventura, con manovre anche azzardate che potrebbero però far scoprire scorciatoie o addirittura nuove destinazioni.
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Ma una peste del genere, pur modificando il fattore umano e le organizzazioni, non cambia la geografia e le necessità prepotenti che lo spazio impone a chi lo occupa.
Tanti appelli alla solidarietà internazionale per questa pandemia, ma in realtà la competizione è veemente e cinica più del solito. Mentre le medie e piccole potenze mondiali (soprattutto europee) brigano tra chiusure guardinghe e coordinamenti pelosi, quelle grandi (USA, Russia e Cina) cercano di non rallentare troppo, di farsi gli sgambetti a vicenda e, con alleati, avversari e opinione pubblica, recitano un sempre più affannato “tout va très bien Madame la Marquise”.
Nel braccio di ferro intrapreso dalla Cina contro gli Stati Uniti d’ America, la guida grillina del Governo italiano ha deciso di riprendere l’esplorazione della vagheggiata “alternativa cinese”.
La potenza asiatica, per recuperare influenza perduta e immagine appannata dal covid-19, ha intrapreso una vera e propria diplomazia umanitaria, composta da forniture (gratuite, “sottoprezzo” o almeno celeri) di personale medico, infrastrutture informatiche, presidi sanitari, macchinari e persino coordinamento scientifico.
L’altra parte, sistemica, del Governo (quella piddina) sembra tollerare questa torsione poiché in un qualche modo convergente, almeno nell’emergenza, con il gioco della Germania.
La Cina, come le altre grandi potenze, oltre al grande sforzo diplomatico, nel frattempo non si è mai veramente fermata. Il lockdown pur severissimo ha coinvolto nei fatti una parte minima della sua popolazione, ha intrapreso una delle più grandi estrazioni di gas della sua storia e ha persino iniziato delle forzature nel mar cinese.
La politica marittima cinese ha una storia molto recente e fatta di frustrazioni. Inutile aprire per bene il capitolo della (forse prematura) sfida cinese alla talassocrazia statunitense (che è la globalizzazione). Basti in questa sede dire come la Cina sia, al di là della corsa cantieristica, imprigionata nelle sue stesse acque a causa di un cordone geopolitico (composto da Corea del Sud, Giappone, Taiwan, Filippine e Vietnam) che gli Stati Uniti hanno messo in piedi proprio per contenerne le ambizioni.
Impossibilitata dunque a contendere il monopolio delle rotte agli Stati Uniti, la Cina aveva iniziato una serie di investimenti infrastrutturali e militari in tutto il mondo sia per agganciarsi strategicamente alle suddette rotte, sia per iniziare un lavoro di proiezione della propria potenza militare. Alcune di queste operazioni (il Pireo, la base militare a Gibuti, eccetera) stanno andando a buon fine, altre sono alquanto rallentate e altre infine sono rimaste solo vagheggiate. Una di queste ultime è il canale del Nicaragua.
Della storia secolare di quest’opera irrealizzata basti dire che tale fallimento, nella psiche nicaraguense, alligna come una castrazione. A pochi passi dal regime sandinista sta la fiorente Panama, col suo canale che significò l’esordio degli Stati Uniti d’America come potenza marittima e tecnica, surclassando l’Europa (che aveva rinunciato all’impreso) alla vigilia del suicidio 14-18. Il mero stato del Mondo è sufficiente a giustificare l’affollarsi di ambizioni su quella Mesoamerica che, impacciando la portentosa libido tra Atlantico e Pacifico, in molti vorrebbero sommergere mentre gli USA vogliono mantenere come comodo collo di bottiglia.
La dinamica USA-Cina, iniziata da Nixon e Partito Comunista Cinese per isolare l’Unione Sovietica, oggi ha trasformato il Pacifico nel grande motore produttivo e commerciale del Pianeta. La demografia spinge ulteriormente sulle forze centripete di questo motore che si fa forte anche di alcune delle maggiori potenze tecniche del pianeta.
New York è sempre meno New York e la California, vera figlia di Panama che iniziò il cammino verso la Silicon Valley proprio con l’esposizione internazionale Panama-Pacifico del 1915 a San Franisco, non è più la backdoor dell’Occidente sull’Oriente ma la facciata principale della nostra civiltà. L’Atlantico, se non fosse per Brasile e Sudafrica, sarebbe il corridoio della più grande casa di riposo al mondo. Il Mediterraneo, invece, dovremo presto ribattezzarlo interamente Canale di Suez, insieme ai mari Nero e Rosso, di fatto sempre più un sistema di navigli che collega l’Asia all’Atlantico da Gibilterra a Bab el Mandeb. E immaginate cosa resterà se sarà possibile creare agili rotte attraverso l’Artico…
Un attore politico è davvero potente quando non deve più adattare la propria agenda allo spazio ma, viceversa, quando può cambiare lo spazio secondo la propria volontà.
L’innovazione tecnologica può ovviare a molti problemi spaziali (gli aerei fan perdere significato alle distanze, l’agrotecnica fa fiorire il deserto, eccetera) ma nella maggior parte dei casi morfologia e clima restano grandi limiti allo sviluppo umano e perciò alla politica. La geoingegneria permette di cambiare forma al mondo con risultati formidabili e Panama e Suez sono gli esempi cardinali di come, in certi casi, possa ancora essere più efficiente scavare un fosso (scusate l’understatement) piuttosto che costruire mille aeroporti.
Panama ha creato una possibilità così travolgente che presto non basterà più a soddisfare il bisogno creato. Non solo i cargo aumentano di numero ma anche di dimensioni. Avendo permesso, e poi assecondato, un modello produttivo e commerciale in cui la manifattura mondiale è sempre più asiatica, il canale ha dovuto essere ammodernato per permettere il traffico di navi sempre più gigantesche e di conseguenza anche l’Egitto (con chi se ne avvantaggia lì intorno) è corso ai ripari perché le migliorie avevano reso alcune nuove rotte via Panama più efficienti di altre tradizionalmente passanti da Suez (non solo problemi ingegneristici ma anche di scarsa sicurezza). Questo per dare l’idea di come due opere ingegneristiche così distanti, e originariamente pensate per due missioni differenti, possano risultare talmente potenti (nel dialogo con l’ingegneria navale) da entrare in competizione per lo stesso mercato.
Sfidare il monopolio statunitense sul commercio transoceanico sarebbe una grande vittoria economica e tecnica, con grandi conseguenze sul definirsi del nuovo multipolarismo globale. Ortega, a capo del regime sandinista del Nicaragua, aveva sperato di potersi accreditare come interlocutore strategico per i competitor degli USA.
Ad ogni modo, dopo un grande buco nell’acqua con un imprenditore cinese, non solo non sembrano più esserci investitori (si era parlato dell’Iran, si era discusso del Venezuela, ça va sans dire…) ma anche la copertura politica internazionale sembra essersi esaurita.
La Cina ha infatti da poco conquistato una grande vittoria diplomatica (e commerciale) incrinando a proprio vantaggio i rapporti tra Panama e Taiwan. Chiuso questo accordo migliore con Panama, e finanziata una quota della grande ferrovia commerciale Perù-Brasile passante per la Bolivia (di recente…”agitata”), al momento la Cina non ha forse bisogno di tirare ulteriormente la corda nel “giardino davanti casa” degli USA.
Un altro grande esempio di progetto strategico abortito (sul quale entrerò meno nei dettagli) sarebbe quello del canale di Thailandia che dovrebbe integrare/decongestionare lo stretto di Malacca (rotta affollatissima nel mezzo dell’area più popolosa del pianeta) bypassando la Malesia e Singapore con una rotta più breve di ben tre giorni. Questo renderebbe assai più efficiente il sistema di rifornimento per Cina, Corea e Giappone in gran parte dipendenti dalle petroliere mediorientali, oltre a garantire migliori traffici con l’altra grande potenza asiatica (l’India) e creando, anche in sinergia con il potenziamento di Suez, una rotta importante per la nuova Via della Seta.
L’interesse generale (non solo Cinese quindi) è molto più condiviso che sul caso mesoamericano, eppure qui uno dei principali ostruzionismi viene proprio dal governo tailandese che non è un miserrimo staterello con nulla da perdere come il Nicaragua. L’ex regno del Siam vede come assai problematico un tale impegno geopolitico che esporrebbe la nazione alle tensioni globali, inasprendo oltretutto le pretese indipendentiste (irredentiste?) della minoranza musulmana malese che occupa proprio le province a sud dell’immaginato canale.
Fatto sta che la nuova Grande Politica nell’emergente multipolarismo globale passerà sempre più dall’impiego della tecnica per grandi progetti ingegneristici necessari alla razionalizzazione della geografia. Le grandi potenze hanno progetti in mente e alcuni già in cantiere. Solo la dimensione e la forma imperiale (grandi volumi, diverse culture, strategie che mettano al centro di immense fette del planisfero) può impiegarsi per simili sfide. Gli stati nazionali vivono la loro crisi proprio su questo tema.
Contemporaneamente Germania e Russia realizzano un gigantesco gasdotto nel Baltico per bypassare il cordone atlantista rappresentato dai paesi di Visegrad. Nord Stream, che i polacchi chiamano il gasdotto Ribbentrop-Molotov, rappresenta il grande investimento comune tra l’Impero Russo e la Germania locomotiva d’Europa. Al di là del federalismo, del trattativismo, del sovranismo, dell’europeismo e in generale del dibattito interno all’Unione Europea, è inevitabile che (nonostante certe tensioni anche cruente come la questione Ucraina) l’Europa e la Russia guardino verso una sempre maggiore integrazione.
La Russia ha ancora una potenza nucleare tale da poter discutersela a tu per tu con gli USA nonostante abbia un’economia da colonia vittoriana (praticamente solo materie prime che, sì, sono importanti ma che sono anche suscettibili di fluttuazioni e speculazioni pericolose). L’Europa rappresenta ancora un’economia importante anche se di fatto aggiogata militarmente agli USA. È naturale che la prima guardi all’economia della seconda per sostenere il proprio apparato tecnico-militare mentre la seconda guardi all’apparato tecnico militare della prima per sostenere la propria economia.
Il coronavirus non cambierà la geografia e quindi le strategie delle potenze, ma potrà condizionare i comportamenti tattici, far commettere azzardi pericolosi (come le attuali provocazioni cinesi contro il contenimento statunitense) o costringere a prudenze che potrebbero risultare ancor più letali degli azzardi (come certi lockdown europei). Quel che è chiaro infine è che il mondo manca di una leadership nella crisi come nell’ordinaria amministrazione.
Gli USA stanno abbandonando la leadership mondiale senza permettere che emerga una candidata alla successione…evitando perfino che le regioni si riorganizzino in comunità (integrazione europea) o dietro realtà egemoniche regionali (sia essa la Germania per l’Europa, l’Iran per il Medioriente e così via). Dopo il divide et impera, divide et de tuis consule (dividi e fatti le tue cose).
All’interno degli stati nazionali (soprattutto occidentali, soprattutto europei) la crisi della leadership è ancor più evidente e inquietante. Con buona pace dei complottisti, ottimisti nelle loro teorie sinarchiche, non c’è alcun controllo, non c’è alcun ordine. Siamo in mano a nessuno.
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Palermitano, classe 1985. Direttore editoriale di “Mondo Operaio”, la storica rivista fondata da Pietro Nenni nel 1948, nonché il periodico politico più longevo d’Italia. Dirigente del Partito Socialista Italiano, già segretario della Federazione dei Giovani Socialisti (F.G.S.) e Bureau Member dello YES (Young European Socialists). Oltre alla militanza politica, si è occupato di critica del costume e d’arte, diventando editore e project manager del sito Kill Surf City. Appassionato di antropologia, è tecnico della FIGeST (Federazione Italiana Giochi e Sport Tradizionali).
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